LA PERSONA NON APPARTIENE SOLAMENTE A SE STESSA

don Alberto Franzini

E’ indubbio che la recente approvazione da parte del nostro Parlamento delle DAT (Disposizioni anticipate di trattamento) e il rinvio del giudizio, da parte della Corte d’Assise di Milano, alla Corte costituzionale per stabilire il grado di responsabilità di Cappato nell’aiuto prestato a Fabiano Antoniani a raggiungere la Svizzera per far ricorso al suicidio assistito – il che è condannato dall’art. 580 del Codice penale, ritenuto però dal giudici di Milano passibile di incostituzionalità – ripropone non solo una accurata riflessione di carattere giuridico-costituzionale, nella quale non entro perché incompetente in materia, ma ripropone a tutto tondo il centro del problema, che deve stare a cuore a tutti.

Esiste un diritto al suicidio? E il suicidio, basta che sia “assistito”, perché non sia più considerato tale? Il principio di autodeterminazione è così esteso da non aver bisogno di alcun limite, per cui tra le libertà fondamentali si deve necessariamente includere anche quella relativa a “come e quando morire”, da proteggere anche legislativamente? Sono interrogativi che anche le recenti disposizioni di trattamento sul fine-vita sollevano.

Mi sembra che, alla base anche delle ulteriori richieste che vengono da più parti per arrivare anche in Italia ad avere finalmente (!) una chiara normativa che legittimi, in alcuni casi, l’eutanasia e il suicidio assistito, ci sia la questione fondamentale: la vita umana è un bene disponibile o indisponibile?
Per rispondere a questa fondamentale questione è necessario fare un passo ancor più radicale: la persona umana appartiene solamente a se stessa o appartiene anche a quella rete di relazioni (famiglia, amicizie, società…) nella quale ogni persona non solo ha ricevuto in dono la vita (per i credenti la vita è un grande dono di Dio; per chi non è credente la vita è stata comunque accesa dai propri genitori), ma ha potuto farla crescere e portarla alla sua piena maturazione?
Insomma: l’individuo diventa persona solo grazie a se stesso, soddisfacendo i propri desideri soggettivi o anche grazie alle relazioni con gli altri?
La libertà è sempre ed esclusivamente un atto solitario e individuale o può crescere e prosperare solo in un contesto solidale e quindi relazionale?
La visione che pare sottostare alle DAT – non è qui possibile elencare doviziosamente i punti critici della nuova legge - è comunque quella di una persona capace di pensarsi unicamente come detentore di un potere illimitato sulla vita e sulla morte.

L’antropologia sottesa è quella di una radicale autoreferenzialità dell’io, la cui identità è data solamente dall’esercizio illimitato della propria autonomia personale, che arriva fino a metter le mani (è il caso di dire: fino a manomettere) quei momenti estremi – il nascere e il morire – che finora erano sottratti al proprio arbitrio, perché ritenuti “beni indisponibili”, che stanno alla base della dignità della persona e della stessa convivenza sociale.
Sembra proprio che l’irruzione del materialismo nichilista e della cultura radicale e neoliberistica (e neolibertaria) degli anni ’70 del secolo scorso, grazie ai cospicui sostegni finanziari di alcune lobbies che hanno poi influenzato le classi politiche, abbia sostituito non solo l’umanesimo cristiano, che tanta parte ha avuto nella storia e nella cultura occidentale e non solo, ma anche l’umanesimo di Gramsci, di Rosselli, di Norberto Bobbio… Si tratta di quell’umanesimo sotteso alla nostra stessa Carta costituzionale, un umanesimo convintamente vissuto e condiviso dal nostro popolo, diviso politicamente, come è giusto sia in democrazia, ma unito su alcuni valori di fondo senza dei quali non è possibile costruire nessuna convivenza sociale: basti pensare qui al paesaggio umano di Peppone e don Camillo!

La cultura dell’autonomismo radicale ha finito per intaccare quasi tutte le componenti sociali e politiche del nostro Paese, comprese quelle formazioni che, per genesi storica e militanza attiva, erano state fortemente caratterizzate da una visione antisoggettivistica e solidaristica dell’uomo e della società, e che oggi hanno finito per accogliere un’antropologia individualistica e neoliberista del soggetto umano attraverso la stagione dei “diritti civili”: una dizione, quest’ultima, che avrebbe bisogno di una più seria e ponderata riflessione.
Ma perché l’individuo deve poter avere la radicale libertà di poter disporre della propria vita, quando l’intera trama, l’intera avventura della propria vita è profondamente correlata a quella degli altri?
E proprio nel momento terminale, quando il dolore e le sofferenze diventano un peso difficilmente sopportabile, non rischiano le disposizioni soggettivistiche di rifiuto delle cure di isolare ulteriormente il malato, “staccandolo dalla spina” della sua famiglia e di coloro – in primo luogo i medici – abilitati, più che a sospendere le cure, ad intensificarle, come è proprio della professione medica, affinchè la persona sia accompagnata verso la morte con la massima dignità possibile, ossia attraverso le terapie del dolore, e non certo attraverso atti omissivi, sia pure richiesti dal paziente?
L’avvicinarsi della morte è il momento supremo in cui la persona è chiamata ad evitare il più possibile di entrare nel tunnel drammatico della solitudine, che si può vincere solo con un abbandono più fiduciario a coloro che le sono stati vicini nel cammino della vita e con una relazione di cura più ricca e più intensa, di fronte alla quale le dichiarazioni anticipate, proprio perché “anticipate”, rivelano tutta la loro inadeguatezza e la loro astrattezza.

Proprio la riflessione sul “fine-vita” dovrebbe condurre non solo ad attrezzare al meglio le cure mediche, non solo a “chiudere la partita della vita” con una decisione di morte anticipata, ma ad “anticipare” e quindi ad approfondire, durante l’intero corso della vita, le motivazioni esistenziali ed essenziali sul senso complessivo del vivere umano, strutturalmente aperto al mistero e alla speranza di una prospettiva che “va oltre la morte”, di una partita che non può sinistramente finire nel buio di un sepolcro, dopo aver assaporato le luci, i sussulti, le gioie, le passioni di un’avventura così significativa, qual è l’avventura umana.

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